Lui è tornato. Peter Gabriel ci dona I/O
Una gestazione difficile, quasi 22 anni dopo l’ultimo lavoro inedito, per regalare ancora emozioni ai suoi fans e al mondo intero. Un parto durato dodici mesi con uscite regolari mensili, sincronizzate con la luna piena, per arrivare infine al rilascio della sua nuova creatura.
Tre gemelli di fatto, due mixaggi differenti, uno più solare, Bright, con un respiro più ampio e uno più cupo, più asciutto, Dark. Inoltre un terzo remix in Dolby Atmos disponibile solo su Blue Ray e fruibile appieno in impianti adatti a deliziare le orecchie dei più fortunati.
Seguo Peter Gabriel dal 1980, dal mitico concerto alle Cascine di Firenze ma ovviamente ero già suo appassionato estimatore da quando inventava storie impossibili di bambine che mozzavano la testa all’amichetto con mazze da croquet, lasciando stupefatto l’allora giovane pubblico con travestimenti improbabili e tagli di capelli altrettanto inusuali.
Sono passati tanti anni e la carriera solista di questo genio della musica e della comunicazione è stata costellata di pezzi meravigliosi, di concerti unici, di attese senza un domani per una parola sola che annunciasse nuovi lavori in uscita e soprattutto di tanta, ma tanta cultura regalata attraverso i suoi testi mai scontati, sempre in linea con un anelito personale di affermare l’iniquità di taluni comportamenti dell’uomo, della sua assurda capacità di rovinare quanto di meraviglioso ci circondi, con un attenzione ferma e costante ai diritti dell’uomo, rispetto ad un sistema che spesso lo relega a comparsa in uno scenario di potere malvagio.
Ascoltare il primo pezzo, quando oramai un anno fa uscì, fu come ritrovare un amico che ti aspetti di vedere presto ma che non riesci mai ad incontrare. Panopticom fu un lampo che in un attimo ti fece riagganciare ricordi sopiti ma mai accantonati.
E’ un pezzo sul controllo del singolo nella società d’oggi, che gioca sull’invenzione di Jeremy Bentham che ideò una prigione circolare che un uomo soltanto sarebbe stato in grado di controllare interamente.
Quello che in fondo succede al giorno d’oggi con il web ed i social che costantemente controllano gli utenti e ne condizionano pesantemente scelte e ideologie.
Pieno di sonorità ampie e solari, è un’apertura che lascia presagire un lavoro ad ampio respiro, seppur velocemente assimilabile ed è qualcosa che scatena immediatamente la voglia delle sue antiche sonorità. Ed ecco invece la prima inaspettata inversione.
In the Court arriva come un brusco stop all’ariosità del pezzo precedente, con un ritmo incalzante e ipnotico a portarci nelle aule di tribunali, per sottolineare i gravissimi problemi di equità di giudizio che la giustizia non è mai riuscita a risolvere… l’idea della corte che si alza in piedi (iconica scena di qualunque film dove esiste un processo) mentre le colonne che reggono l’aula crollano miseramente, sottolinea l’ingiustizia di certi atteggiamenti che favoriscono la corruzione a vantaggio di personaggi squallidi e miserabili.
La pausa fra la frase “And the court / will rise” rende perfettamente l’immagine di impotenza verso la possibilità di cambiare le cose. E poi improvvisamente il genio.
Introdotto da un pianoforte di antiche sonorità (Randy Newman?) e il basso di Tony Levin, ecco la Sua Voce. Quella che emoziona nel profondo. L’importanza dei ricordi nella propria interiorità, “everything i care about is held in there” tutto quello che mi interessa è custodito qui.
Un invito a non sprecare tempo e non cancellare i ricordi e il proprio vissuto, perché in fondo tutto parte da lì. Lo scorrere del tempo, ed ogni attimo, bello o brutto, fa parte di noi e ci spinge a vivere con amore quella cosa che ci è stata data in dono, la nostra vita.
Playing for time a mio avviso è uno dei pezzi più belli in assoluto di questo disco, un testo meraviglioso, atmosfere rarefatte e voce in primo piano, che creano una tensione emotivamente insostenibile, fino al punto in cui l’incedere di una speranza nuova, nel ritmo che finalmente avvolge il pezzo e il meraviglioso corollario di archi di John Metcalfe che ne seguono le emozioni, ci portano fino al plateau. Il titolo del disco è I/O, input output e il quarto brano è appunto quello che dà il nome a questa meraviglia.
“Sono parte di qualsiasi cosa”, dice Peter, dando rilevanza al fatto che tentiamo di essere unici e perfettamente distinti dagli altri, ma che in fondo siamo interconnessi gli uni agli altri in un unico legame inscindibile.
Atmosfere ancora molto ariose, che si liberano in un ritornello ripetuto come un mantra, mentre cose entrano ed escono, in un echeggiare di Genesiana memoria, dove si deve entrare per uscire… Tutto è un unico flusso di energia del quale siamo un ingranaggio, inscindibile dagli altri. Annunciato da un’atmosfera che riporta alla tensione iniziale di San Jacinto, ecco arrivare un altro capolavoro che rende prezioso questo lavoro.
Four Kinds of Horses, quattro tipi di cavalli, e di uomini. Una categorizzazione delle tipologie dei comportamenti umani, ripetitivi, nonostante ci sia l’illusione di essere individui unici in questa umanità.
Il testo di Peter Gabriel dal tema intrigante è sposato ad una melodia ed un arrangiamento suggestivo che lo rende godibile ed emozionante, fino all’ultima nota, attraverso archi, controcanti eterei, il basso di Levin e persino dei pizzicati assolutamente d’atmosfera. Ed ecco, con un rapido cambio d’atmosfera, palesarsi il Gabriel ottimista con un pezzo dedicato alla rinascita, alla consapevolezza di sè stessi e della propria interiorità, che ci consenta di passare dalla depressione e dalle delusioni che ci avvelenano, alla strada verso il benessere interiore.
Road to Joy musicalmente è un pezzo molto soul, che riporta a galla le sue passioni musicali di gioventù.
Serve a staccare le atmosfere magiche del pezzo precedente e a preparare all’altro grande capolavoro di questo disco. Poche e rarefatte note di piano, e il suo timbro emozionante ci portano immediatamente ad una introspezione sul significato della vita, sulla sua caducità e limitazione nel tempo, sulla necessità di fare più cose possibili pur avendo ben presente che tutto è limitato e circoscritto dalla natura temporanea del nostro operato.
Tutto il calore che ci pervade proviene dalle persone che amiamo, e questo è di nuovo un invito a connettersi l’un l’altro e a considerare che anche l’inevitabile degrado fisico deve invitarci a non sprecare nemmeno un attimo della nostra vita.
L’incredibile atmosfera creata dalla voce quasi sussurrata e dallo splendido arrangiamento di Peter Gabriel pone So Much fra i più belli del disco.
Nuovo cambio di direzione musicale, anche se il tema della connessione rimane, stavolta sposato ad un’idea di resilienza e di rinascita, portata dall’esempio dell’olivo, albero dalle mille risorse, e dall’idea del seme che fuoriesce dal terreno, poiché dotato di forza irrefrenabile e non contenibile, come è la necessità dell’uomo di aver costantemente un’idea di cambiamento positivo, di rinascita.
Olive Tree è davvero un pezzo fresco di Peter Gabriel, con una sezione fiati che a tratti riporta qualche sonorità pregressa, ma questa è una costante di tutto il lavoro, echi del passato ma con un abito nuovo e sempre legato ad una ricerca che non smetterà mai di caratterizzare i lavori di Gabriel.
È ancora un brusco cambio di mood, quello che ci aspetta nella meravigliosa Love Can Heal. L’amore domina nella vita, nel bene e nel male, e se per colpa dell’amore spesso ci si può trovare spersi e disperati, è solo la ricerca continua dell’amore stesso che può guarirci.
Le immagini di luoghi calmi e verdi ci suggerisce un posto quieto dove ritrovarsi, e contemplare la vita nell’equilibrio e nella pace, e l’unico motore che ci può spingere verso questo luogo è appunto l’amore.
Peter Gabriel ci regala uno stupendo tappeto di soffici percussioni e un violoncello malinconico, questo il quadro ove la voce di Peter disegna un emozionante preghiera d’amore per tutti noi che ascoltiamo. Sempre l’amore e la ricerca di un posto ove stare attraverso esso, sia esso un luogo, una casa, o un rapporto con il proprio partner si ritrova nel brano successivo.
This is home, questa è casa, e casa è appunto il luogo dove rifugiarsi in mezzo al tumulto della vita, ove ritrovare nel rapporto di una relazione resiliente il vero senso della vita. Sound accattivante, mood gioioso, uno dei tipici pezzi che staccano dall’emotività profonda e fanno ritrovare la voglia di sorridere.
And Still è una delicata preghiera verso qualcuno che non c’è più, una persona cara che ha lasciato più di un insegnamento e il cui ricordo fa ancora provare sensazioni agrodolci di malinconia e sorrisi, di nostalgia e voglia di avere ancora davanti la presenza fisica di chi continua a vivere solo nei ricordi.
Voce sussurrata e ritmo lento ed ipnotico di Peter Gabriel, il solito meraviglioso violoncello malinconico, il preludio al distacco che sta per avvenire con l’ultimo brano di questo stupendo lavoro. A questo punto immagino l’atmosfera formale rompersi e il nostro Peter alzarsi, passare fra le persone che lo ascoltano, sorridere e chiedere con lo sguardo di lasciare andare i propri pesi interiori e praticare la strada del perdono per gli altri, ma soprattutto per sé stessi, essendo il perdono l’unica via per liberare il proprio animo da qualunque macchia, da qualsiasi peso che gravi sul nostro essere.
Live and Let Live, Vivi e lascia vivere…La strada da percorrere e verso la quale lui ci chiede di andare, è proprio questa. Anche il ritmo del pezzo suggerisce proprio l’idea dei titoli di coda di un film dove tutti i protagonisti si uniscono in un unico gruppo, sorridenti, finalmente liberi dal peso di portare dentro qualcosa che non voleva smettere di tormentarli.
La nuova In you Eyes a mio avviso. Perché i concerti di Peter Gabriel emozionano, fanno commuovere, ma ti lasciano andare via sempre felice. E anche stavolta questo lungo viaggio termina così, con il sole negli occhi e tanta, tanta gioia nel cuore.
Scritto da Roberto Scorta